I criteri per stabilire l’entità dei risarcimenti possono apparire fumosi a chi non è del mestiere, dunque a chi inoltra legittima richiesta di risarcimento danni e intenta una causa. Tuttavia, la giurisprudenza ha prodotto molto materiale in merito, sicché si apprezza la presenza di criteri certi e ben codificati, anche qualora l’entità del danno sia poco quantificabile scientificamente e oggettivamente.
Ne parliamo qui, fornendo una panoramica dei criteri attualmente in uso, fornendo qualche esempio concreto e i necessari riferimenti legislativi / giurisprudenziali.
Prima di descrivere i criteri è bene fare il punto su un tema che può apparire più importante di quello che realmente è: la discrezionalità del giudice.
Ebbene, è chiaro che una certa discrezionalità del giudice permanga anche in presenza di criteri ben codificati, persino in presenza di metodiche oggettive e scientifiche di quantificazione del danno. Ciò rappresenta però una forma di tutela per le parti interessate in quanto lascia uno spiraglio per rendere onore alle specificità del caso. Per quanto le casistiche possano e debbano avere dei punti in comune, ogni evento presenta delle peculiarità, le quali possono essere valorizzate solo se il giudice ha, almeno in parte, mano libera.
D’altrocanto ciò pone in essere un altro tema, quello della qualità dell’assistenza legale. Se la quantificazione del danno è incerta, allora la palla passa anche agli avvocati, che possono far pendere l’ago della bilancia verso l’uno e l’altro risultato. Da qui la necessità di valutare con cura l’avvocato o lo studio legale cui affidarsi.
Di seguito, una panoramica dei tre criteri più importanti per stabilire l’entità dei risarcimenti.
E’ il criterio che viene utilizzato quando è possibile certificare l’esistenza del danno ma, allo stesso tempo, non può essere quantificato con sicurezza. E’ il caso di tutti quei danni di natura non biologica, o per meglio dire non patologica, e non patrimoniale.
Per i primi, infatti, vi sono le Tabelle di Milano, che operano una corrispondenza tra i punti di invalidità cagionati dall’evento, l’età del soggetto e le cifre da risarcire. Per i secondi il discorso è diverso e in parte più chiaro, specie se l’evento scatenante consiste nel mancato adempimento di un contratto.
Il criterio equitativo trova applicazione, dunque, soprattutto nella quantificazione del danno morale, che genera un turbamento, una situazione di ansia (non patologica), una condizione di stress acuto.
Ovviamente, il giudice non può fare completamente di “testa sua”, ma deve fare riferimento alla sua esperienza e a simili casistiche processuali. In questo caso, si avvertono profili più simili alla common law di radice anglosassone, per la quale ogni sentenza assume valore giurisprudenziale.
Il testo di riferimento per chi vuole approfondire il criterio equitativo è la sentenza della Cassazione n. 4377 del 25 novembre 2015.
Il criterio della forma specifica consiste nella riparazione totale del danno, o per meglio dire nel ripristino totale della situazione antecedente all’evento che ha cagionato il danno. Trova applicazione in tutti quei casi in cui un evento ha causato una ben circoscritta perdita di denaro. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, si tratta di illeciti di natura extracontrattuale.
Il testo di riferimento per questo criterio è l’articolo 2058 del Codice Civile.
Questo criterio permette di quantificare una cifra che possa essere paragonata al danno. In buona sostanza, il risarcimento diventa una “traduzione” in denaro del bene perduto. L’applicazione classica è la quantificazione del danno biologico.
Nello specifico, le “equivalenze” sono disciplinate dalle Tabelle di Milano, che quantificano il danno in base ai punti di invalidità e all’età del soggetto.
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